Sila un posto da favola
Calliope
Tutti noi siamo cresciuti accompagnati da una favola. Una favola è come un faro: ci indica la via da seguire. Quanti Capuccetto Rosso, quanti Robin Hood, quante streghe circondano la nostra vita? Fin dalla notte dei tempi le voci di nostra madre, di nostro padre o di una qualunque persona, hanno incantato la mente dei bambini che siamo stati. Eppure mai nessuno parla di colei che ha concesso all’uomo questa meravigliosa capacità di sognare. Nessuno mai parla di colei che ci ha donato l’immaginazione. Sappiamo solo che possiamo immaginare, che possiamo emozionarci, tuttavia non ci siamo mai chiesti il perché. I greci la chiamavano Calliope, dea dalla bella voce, personificazione della letteratura epica. È grazie a lei se noi ancora oggi godiamo di grandiose gesta storiche e leggendarie di eroi e popoli. È dal suo mantello fatato che i mille e mille personaggi della nostra infanzia sono nati e giunti a noi. È grazie alle inquietudini del suo essere se ci ritroviamo a gioire, a piangere, a schernire ed a difendere. Lei è ciò che più ci mantiene vicini al cuore, mai troppo distanti dall’infanzia cui vagheggiamo di ritornare. Lei è armonia, lei è emozione, lei è ricordo di un’anima che oltrepassa il corpo. Lei è speranza, lei è fiducia, lei è lottare. Potete chiamarla creatività, fantasia, inventiva, estro, genialità, vena. Chiamatela come vi pare. Ciò che importa è che la chiamiate.
Località: Lago Ampollino; Modella: Giusy Criscuolo; Abito: Tina Ginese e Valentina Versace, Accademia della Moda filiale di Cosenza
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
Le Streghe del Mago di OZ
Nel mondo di Oz tutto era in festa ora che le due streghe cattive erano state sconfitte. Evanora e Theodora, adirate ed umiliate, per quanto volessero vendicarsi, preferirono lasciare quel mondo magico che tante inquietudini e turbamenti aveva loro provocato.
Vagarono per anni e anni in cerca di una giusta dimora che potesse lenire i silenziosi dolori di entrambe. La favola non lo racconta, ma pare che le due in precedenza fossero tanto buone e gentili, beneamate da tutti i loro sudditi.
Fu il potente Oz con l’inganno a trasformare il loro cuore in un concentrato di odio e perfidia. Il mago, infatti, per liberarsi delle due e lasciare a Glinda tutto il regno, con arti e parole magiche riuscì a conquistare il cuore di entrambe e, una volta avuto le due completamente in pugno, lasciò alla gelosia fare tutto il resto e, ben presto, accecate dall’amore e dal tormento le streghe si diedero battaglia provocando distruzione e disperazione nel regno, lasciando che Oz e i suoi alleati approfittassero di tale instabilità per sconfiggerle del tutto.
Da allora si narra che le due mai più parlarono, diventando silenziose e serrando per sempre il dolore del loro cuore spezzato nell’anima, rendendo impassibili i loro volti e rabbiosi i loro sguardi tanto che chiunque le abbia incrociate, ancora ricorda il gelo che si avverte nel solo scrutarle.
Attraversarono l’intera Europa cercando un luogo dove giacere per l’eternità. In prossimità della Romania udirono il racconto di un cantore che narrava storie e leggende di una località montana che sorge nel cuore dell’Appennino calabrese, dove padroneggia un’immensa ed incontaminata bellezza, ristoro fresco d’estate e meraviglioso eden imbiancato d’inverno.
Incuriosite le due a suon di scopa raggiunsero il luogo.
Osservarono splendidi paesaggi all’interno di un ambiente selvaggio e lussureggiante.
Battezzarono quel luogo Carolus Magnus, come buon auspicio per una quieta e irrilevante esistenza. Da allora si narra che le due silenziose e impercettibili vaghino di tanto in tanto per i boschi, Evanora di giorno e Theodora al calar del sole.
Serpeggia da quelle parti la diceria che i grandi giorni di bufera e gelo siano a causa delle due streghe che ancora discutono su chi delle due sia stata la più amata da Oz.
Località: Carlomagno; Modelle: Angela Fragale, Francesca Talarico; Abito: Sez.Moda IIS ITGC ISA – Liceo Artistico San Giovanni in Fiore
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
La Bella Addormentata nel Bosco
Nel regno di Fallistro, in mezzo ai boschi della Sila Grande, la vivace e ribelle Aurora, come sempre girovagava per il maestoso giardino del suo palazzo.
Non c’era pianta o albero che il re suo padre non avesse procurato per accontentare gli studi e l’interesse scientifico, estetico, storico e ricreativo della bella principessa che aveva fatto di quel giardino una vera e propria riserva naturale.
Tuttavia il re, per quanto amasse accontentare Aurora, non era stato capace di regalarle l’unica cosa che mancava alla collezione della viziata principessa: un eccezionale esemplare appartenente alla pineta ultracentenaria le cui piante, si diceva, raggiungessero dimensioni notevolissime.
Spesso aveva mandato i migliori taglialegna in quella parte di foresta, ma mai nessuno era tornato e nel regno serpeggiava la voce che quegli alberi fossero maledetti.
Si diceva anche che quei Giganti della Sila, tale il loro appellativo, possedessero il dono dell’immortalità.
Aurora, stimolata dagli studi che aveva fatto, più e più volte aveva pregato il padre di poter visitare quel luogo, ma il re spinto dal troppo amore e dalla forte gelosia, aveva sempre cercato un modo per distrarre la figlia.
Ecco perché aveva creato il giardino delle meraviglie.
Tuttavia, decisa più che mai a disobbedire, Aurora chiese aiuto al giovane avventuriero che di tanto intanto tornava nel regno per raccontare storie di fantastiche avventure.
Il giovane si chiamava Filippo. Ancora nella penombra del mattino, i due fuggiaschi, elettrizzati e impazienti, cavalcarono per ore e ore alla ricerca del luogo e solo dopo aver lasciato i cavalli ed essersi inerpicati tra sempre più contorti rami, giunsero presso un solitario sentiero che portava ad una piccola radura in cui padroneggiava un pesante silenzio, un luogo in cui neanche il più spavaldo degli scoiattoli si avvicinava.
“Ci siamo.” disse Aurora corredo a piedi scalzi in mezzo ai pini secolari.
Filippo era rimasto indietro. Anche lui aveva udito le storie su quei luoghi e per quanto tutto intorno sembrasse innocuo, il suo senso di allarme era più vivace che mai.
Sentì come un rumore di movimento.
Ancora uno e poi un altro. Si voltò. C’era un piccolo corvo che si aggirava per il terreno, certamente alla ricerca di un buon pasto.
Spaventato da Filippo, il piccolo corvo volò via su di un ramo e come per magia il ramo inghiottì il piccolo corvo lasciando che Filippo cascasse a terra terrorizzato, comprendendo finalmente il segreto del luogo: chiunque toccasse gli alberi sarebbe stato inghiottito e avrebbe vissuto per sempre nella loro corteccia.
Corse urlante invocando Aurora, ma la bella principessa non poteva udirlo.
Si era allontanata troppo e per prendere sollievo dal suo continuo saltellare si era adagiata su uno dei giganteschi tronchi.
Secondo la leggenda pare che ogni quattro lustri lo spirito di Filippo torni tra quegli alberi per trovare Aurora.
I più fortunati possono udirne addirittura le grida.
Località: Fallistro; Modelle: Valentina Cropanise; Abito: Sez.Moda IIS ITGC ISA – Liceo Artistico San Giovanni in Fiore
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
La Regina delle Api
Nel regno di Fallistro, in mezzo ai boschi della Sila Grande, la vivace e ribelle Aurora, come sempre girovagava per il maestoso giardino del suo palazzo.
Non c’era pianta o albero che il re suo padre non avesse procurato per accontentare gli studi e l’interesse scientifico, estetico, storico e ricreativo della bella principessa che aveva fatto di quel giardino una vera e propria riserva naturale.
Tuttavia il re, per quanto amasse accontentare Aurora, non era stato capace di regalarle l’unica cosa che mancava alla collezione della viziata principessa: un eccezionale esemplare appartenente alla pineta ultracentenaria le cui piante, si diceva, raggiungessero dimensioni notevolissime.
Spesso aveva mandato i migliori taglialegna in quella parte di foresta, ma mai nessuno era tornato e nel regno serpeggiava la voce che quegli alberi fossero maledetti.
Si diceva anche che quei Giganti della Sila, tale il loro appellativo, possedessero il dono dell’immortalità.
Aurora, stimolata dagli studi che aveva fatto, più e più volte aveva pregato il padre di poter visitare quel luogo, ma il re spinto dal troppo amore e dalla forte gelosia, aveva sempre cercato un modo per distrarre la figlia.
Ecco perché aveva creato il giardino delle meraviglie.
Tuttavia, decisa più che mai a disobbedire, Aurora chiese aiuto al giovane avventuriero che di tanto intanto tornava nel regno per raccontare storie di fantastiche avventure.
Il giovane si chiamava Filippo. Ancora nella penombra del mattino, i due fuggiaschi, elettrizzati e impazienti, cavalcarono per ore e ore alla ricerca del luogo e solo dopo aver lasciato i cavalli ed essersi inerpicati tra sempre più contorti rami, giunsero presso un solitario sentiero che portava ad una piccola radura in cui padroneggiava un pesante silenzio, un luogo in cui neanche il più spavaldo degli scoiattoli si avvicinava.
“Ci siamo.” disse Aurora corredo a piedi scalzi in mezzo ai pini secolari.
Filippo era rimasto indietro. Anche lui aveva udito le storie su quei luoghi e per quanto tutto intorno sembrasse innocuo, il suo senso di allarme era più vivace che mai.
Sentì come un rumore di movimento.
Ancora uno e poi un altro. Si voltò. C’era un piccolo corvo che si aggirava per il terreno, certamente alla ricerca di un buon pasto.
Spaventato da Filippo, il piccolo corvo volò via su di un ramo e come per magia il ramo inghiottì il piccolo corvo lasciando che Filippo cascasse a terra terrorizzato, comprendendo finalmente il segreto del luogo: chiunque toccasse gli alberi sarebbe stato inghiottito e avrebbe vissuto per sempre nella loro corteccia.
Corse urlante invocando Aurora, ma la bella principessa non poteva udirlo.
Si era allontanata troppo e per prendere sollievo dal suo continuo saltellare si era adagiata su uno dei giganteschi tronchi.
Secondo la leggenda pare che ogni quattro lustri lo spirito di Filippo torni tra quegli alberi per trovare Aurora.
I più fortunati possono udirne addirittura le grida.
Località: Sersale, Valli Cupe; Modella: Valentina Piccoli; abito: Brenda Miriam Pizzari; Accademia della Moda filiale di Cosenza
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
Cappuccetto Rosso
Cappuccetto Rosso non proseguì per il sentiero a casa della nonna.
Il buon vecchio falegname le aveva parlato dell’albero incantato: chiunque avesse trovato il famoso abete bianco avrebbe scoperto il segreto della foresta.
Con il naso all’insù, cercando quella corteccia grigio-brunastra dalle profonde solcature rossicce, vagò in lungo e largo cercando il maestoso albero senza mai trovarlo.
Insoddisfatta e stanca si fermò, sedendo su dei resti di quello che doveva essere stato un magnifico esemplare d’imponenza e grandezza.
Persa nel suono del silenzio e osservando il fruscío delle foglie attorno, all’improvviso si ricordò di una storia udita tempo addietro.
La storia era di uno scrittore, Norman Douglas, che nel diario del suo viaggio in Calabria, rimase colpito dalla selvaggia bellezza della foresta del Gariglione.
Quella descrizione le era da subito rimasta in mente:
«Potrei – scriveva Douglas – aver costeggiato il bosco del Garigliano. Questo tratto si trova a circa quattro ore e mezza distanza da San Giovanni, l’ho trovato, alcuni anni fa, ad essere una regione di vero e proprio Urwald o giungla primaria, non c’era nulla di simile, a mia conoscenza, su questo lato delle Alpi, e neppure nelle Alpi stesse, nulla del genere più vicino di quanto la Russia. […]»
Tornata alla realtà e pronta a tornare da dov’era venuta, Cappuccetto si chinò per prendere il delicato cesto e lì qualcosa attirò la sua attenzione.
Inciso su una radice, era il termine Prometeo.
All’improvviso udì un rumore lì intorno.
Si voltò.
Non vide nulla ma conscia di qualcosa o qualcuno che certamente non la faceva sentire sola, la fanciulla, afferrato il suo cesto, sgattaiolò via, incurante degli occhi del lupo che la scrutavano proprio da sotto le poderose radici dell’albero incantato dove lei neanche si era accorta di sedere.
La storia racconta che nelle notti più fredde il lupo ritorni per sincerarsi che il segreto della foresta sia rimasto ancora celato.
Località: Monte Gariglione; Modella: Silvia Pulice; abito: Asia Capoccia; Accademia della Moda filiale di Cosenza
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
Pocahontas
In un’epoca in cui l’uomo venerava ancora gli dei, si narra di una tribù, il popolo dei Briganti, molto famosi ai romani per la loro riottosità e per la grande forza e dedizione al lavoro.
Erano guidati da una donna che essi stessi chiamavano Brigantia, da cui avevano scelto il nome del loro stesso popolo.
Non si è mai saputo con precisione quali fossero le origini della grande virago, tuttavia ciò che ancora resiste è la fama del grande coraggio e della grande lotta che per anni ed anni questa donna ha condotto insieme al suo popolo vagando di terra in terra con il solo scopo di insegnare agli uomini soggiogati ed arresi ad ingiustizie, soprusi e classificazioni sociali, cos’è che davvero conti nella vita e come viverla al meglio.
Con gli instancabili seguaci, che lei mai abbandonava, Brigantia raggiunse la nostra terra, dalla notte dei secoli, sfruttata per le sue immense ricchezze, su cui oziosi e indolenti signori poggiavano il nerbo della loro proprietà.
Ben nascosta nei territori dell’antica e forte Crotone, Brigantia ben presto si rese conto della grave cecità e sottomissione dei popoli silani e ben presto organizzò adunanze e piccoli focolari in cui diffondere il grido di speranza che molti cuori aveva ispirato e coinvolto nella sua battaglia contro i potenti tiranni che presero a darle la caccia senza mai risparmiare nessuno. Si dice che per riuscire a sfuggire ai galeotti inviati per ucciderla, Brigantia fece appianare un percorso segreto che pare collegasse diversi territori, dalle odierne provincie di Crotone fino ad alcune di Catanzaro.
Persiste ancora ai giorni nostri la denominazione “U Carrualu di Briganti”.
Moltissime sono le storie legate a Brigantia.
Alcuni la descrivono come grande guerriera, sempre ultima a ritirarsi dagli scontri, altri come sagace stratega, esperta negli assalti e negli agguati, altri invece la descrivono come luminare, guida e maestra lanciata nel mondo come faro di speranza.
Tuttavia non importa chi sia stata davvero Brigantia.
Scopo della sua esistenza non è mai stato il ricordo della sua memoria, quanto la continuità della sua opera, un’opera che la tribù rimasta nei territori silani ha continuato per secoli e secoli al grido del forte insegnamento della loro matriarca:
“Ciò che conta è l’importanza del rivendicare la Sovranità sulla nostra vita, riprendendone il controllo per realizzare i nostri sogni creativi.
Bisogna ripristinare il nostro potere e smettere di affidare ad altri decisioni che spettano a noi.
Si deve imparare a diventare guerrieri, a lottare per ciò in cui crediamo, a essere attori delle nostre vite e non spettatori, ad essere attivi e mai passivi, ad essere noi stessi pienamente, senza finzione alcuna.
Brigantia ha spezzato tutte le nostre catene, ha fatto cadere le maschere e ci ha resi liberi e forti.
Il suo fuoco creativo è quello della fucina.
Lei ci aiuta a forgiare la nostra vita così come la vogliamo.
Grande guida, sostiene i nostri sforzi e ci aiuta a prosperare.
Località: Taverna dei Briganti, Cotronei; Modella: Lidiana Iocco; abito: Chiara Fondacaro; Accademia della Moda filiale di Cosenza
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
Trilli
Tutti conoscono la storia di Peter Pan e della sua fedele Trilli.
Tuttavia ciò che i più non sanno è che la storia della simpatica fatina, parte da un luogo della Calabria più selvaggia, presso le falde occidentali del Volpintesta, ove il lago Ariamacina giace in un luogo incantato circondato dalle fitte foreste della Sila e da ampie praterie d’alta quota.
Si racconta che in mezzo alla foresta profumata da varie essenze quali faggio, abete ed il pino laricio dove rettili, anfibi e grandi varietà di uccelli palustri hanno sempre vissuto in grande armonia nell’immensa ed incontaminata zona lacustre del lago, vivesse l’instancabile fatina. Venerata dal popolino e festeggiata nel mese di giugno, era considerata come divinità protettrice dei luoghi selvaggi e dell’agricoltura.
In particolare i pastori la veneravano perché proteggesse i greggi dai pericoli della montagna.
Benché restia a fidarsi degli esseri umani e ben avveduta nel non farsi mai vedere, Trilli si prendeva sempre cura di chi entrava nei suoi territori e ad ogni calar del sole, quando i greggi venivano richiamati dai pastori, si racconta che lei si recasse presso le grandi distese brucate agitando una piccola campanella magica che faceva ricrescere l’erba così che tutti i greggi potessero cibarsene sempre senza mai doversi allontanare troppo.
Tuttavia con l’arrivare dell’età moderna, del progresso e dell’interesse scientifico e dello sfruttamento delle risorse da parte dell’uomo, Trilli si ritrovò in un mondo in cui non esisteva più il rispetto per la magia, dove nessun uomo più ascoltava il canto del vento e la danza degli alberi.
Gli uccelli vivevano con il terrore di essere catturati e svilupparono una forte diffidenza, volando via non appena udito il più piccolo rumore, così come rettili ed anfibi preferirono imparare a restare nascosti.
Solo i greggi non poterono difendersi dal giogo dell’uomo nuovo, che non li trattava più con amore, ma come merce utile ad un’industria sempre più in ascesa.
La fatina non poteva andare via senza aver tentato di addolcire il loro destino. Creò allora per loro un custode, guardiano implacabile ed indomabile contro qualsiasi predatore.
Creò per loro un Pastore e per l’uomo un esempio da seguire, amico dotato di un profondo rispetto e attaccamento, pieno di dolcezza ed esuberanza, amante del gioco e delle coccole.
Creò un cane, pieno di energia, dotato di grandi doti atletiche e agilità che gli consentissero di arrampicarsi ovunque, persino su grossi alberi! Regalò a quei luoghi quello che oggi noi chiamiamo Pastore della Sila. Tuttavia, prima di partire alla ricerca di una nuova oasi incontaminata, dove regnasse ancora l’armonia e la magia, si racconta che Trilli consegnò al primo esemplare nato la sua campanella magica e da allora, nelle splendide giornate di primavera, si racconta che tra gli alberi spesso risuoni un suono dolce e quasi impercettibile: è il suono del campanellino che legato intorno al collo del pastore ultracentenario, risveglia la natura di quei luoghi ricordandogli che la loro protettrice non ha mai smesso di curarsi di loro.
Località: Ariamacinai; Modella: Federica Lanzone; abito: Elena Pugliese; Accademia della Moda filiale di Cosenza
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
Esmeralda
Tra il XIV e XV secolo nella leggendaria città fortificata di Acrà, una giovane prostituta ormai al termine della gravidanza girovagava in cerca di un buon riparo dal freddo pungente. Nessuna porta gli venne aperta.
Era tacciata anche come zingara e gli abitanti della città temevano portasse cattiva sorte a chiunque la avvicinasse. Ormai frigida e con le ultime forze riuscì a dare alla luce la sua piccola prima di lasciare sola e stremata questa vita. Fu un’anziana donna a trovare la piccola ed a prenderla con sé. Venne chiamata Agnes.
Crebbe con i migliori insegnamenti ed amata da tutti. Tuttavia con l’avanzare dell’adolescenza, Agnes sviluppò una forte inclinazione per la danza e un senso del ritmo e della musica molto forte tanto da cantare e danzare in qualsivoglia situazione. Dote che per l’ambiente eccessivamente puritano in cui si trovava rappresentava un forte campanello d’allarme. I familiari cercavano spesso di distoglierla da queste sue pericolose inclinazioni, cercando di bloccarla soprattutto se in mezzo alla gente.
Una notte però, quando il primo plenilunio veniva tradizionalmente festeggiato tra banchetti e riti, Agnes per la prima volta conobbe l’arte circense e udito il suono della cetra di un cantore, senza accorgersene già scuoteva i capelli danzando come posseduta da una forza sconosciuta.
Per lei fu l’inizio di una tormentata esistenza. I discendenti della storica città di Pandosia Bruzia, capitale del regno di Italo re degli Enotri, la scacciarono via, strappandole i rispettabili abiti di cui lei non era più degna, pensavano quelle menti così ottuse.
Venne abbandonata presso le grandi distese di grano senza cibo né acqua, esiliata e marchiata come figlia del diavolo.
Fu un giovane dall’aspetto pittoresco ad accogliere l’incosciente giovane.
“Io sono il re Clopin!” le disse.
Fu lui ad insegnarle la nobile arte del canto e del ballo, spiegando come usare banali trucchi di magia per incantare ed ingannare gli spettatori.
Le diede anche un nuovo nome: “Esmeralda! Angelico viso e occhi che ammaliano.”
Così la presentava ai viaggiatori che, incantati, con molta facilità si lasciavano derubare da Clopin, mentre intenti sognavano di fronte a tale entusiasmante bellezza.
La gente del villaggio non impiegò molto a riconoscere in Agnes la regina dei campi di grano che mercanti e viaggiatori avevano incontrato e, presi dall’ira, tentarono di catturare ed uccidere colei che ai loro occhi appariva ora come meretrice e strega.
Clopin ed Esmeralda furono costretti a scappare molto lontano, in una terra dove si diceva risiedesse la grande corte di artisti e bohemien scacciati da tutto il mondo: la Corte dei Miracoli.
Chi ancora racconta questa storia dice che, prima di scappare presso la città su cui di lì a non molto avrebbe vegliato la cattedrale di Notre Dame, Agnes compose una poesia affidata al cantore che aveva incontrato da fanciulla e che questi, tale Vincenzo Julia, abbia dedicato i versi proprio alla città che tanto aveva odiato la ragazza:
« Bella la patria mia coi i suoi vigneti,
col suo vecchio Castello e suoi torrenti;
limpide son le sue fontane, e i venti
sospirano di amor per gli uliveti.
Di monti coronata e di querceti,
sfido l’ira dei nembi e dei potenti;
culla di forti, di impavidi ed ardenti
di martiri, di santi e di poeti.
Località: Acri; Modella: Marina Evangelista; abito: Francesca Doria; Accademia della Moda filiale di Cosenza
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
La Ninfa Aroca
Nella Sila Piccola, nella sorgiva del Tirivolo, intorno alle pendici del Monte Felicita, a sud-ovest della località Femmina Morta ha origine il corso del Crocchio, fiume molto spettacolare che si precipita vertiginosamente a valle tra profonde gole, con un lamento da uragano che lo accompagna sino alla pianura.
Francesco Grano narra in eleganti versi latini che, secondo la tradizione locale, appartenga a questi luoghi la storia di Aroca, una bellissima ninfa. Come tutte le sue sorelle, lei viveva in completa armonia con la natura, lontana dal mondo e dagli usi umani e soprattutto lontana dalla cupidigia e dalle pulsioni amorose tipiche dei mortali.
Eternamente giovane, era consacrata ad Artemide, dea della caccia, passione cui tutte le sue neofite si dedicavano. In una delle sue innumerevoli battute, Aroca catturò l’attenzione di un pastore che rimase talmente colpito dall’infinita bellezza e dalla forte sensualità del suo corpo così agile e procace che se ne innamorò all’istante.
Per quanto il pastore cercasse di conquistarla, lei mai ricambiava e disprezzava più che mai quell’amore e quell’ardore che tanto accendevano l’uomo.
Rifiutato per l’ennesima volta, il pastore giurò vendetta e, adirato e infervorato ancor di più dalla sfuggente divinità, in un agguato riuscì a sopraffarla violentandola fino al compiacimento del suo pesante ed esaltato desiderio.
Aroca da allora rimase inconsolabile, vagando di landa in landa strillante e disperata per la sua sorte così crudele. Si narra che, impietosito e commosso dalla sventura capitata alla giovane, il Sole per mettere fine ai tormenti ed ai lamenti della ninfa, la trasformò in un corso d’acqua pura e limpida.
La leggenda vuole che anche il pastore ricevesse un dono per la sua crudele impresa: fu lapidato ferocemente dalle altre ninfe, adirate per l’infelice sorte capitata alla loro compagna.
Le pietre che gli furono scagliate furono talmente tante che ancora oggi il luogo dell’esecuzione è chiamato Petraia.
Appagata dalla vendetta, oggi Aroca trascorre serena ed in pace la sua esistenza come fiume Crocchio.
Tuttavia nell’anniversario della sua tragedia, pare che il fiume risuoni ancora delle sue grida e che le alghe in esso contenute si accendano ancor di più di porpora a ricordare il sangue della vergine violentata tanto ferocemente.
Località: Fiume Crocchio, Sersale; Modella: Francesca Russo; abito: Rosa Carmen Maisano; Accademia della Moda filiale di Cosenza
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
Biancaneve
In una terra tanto incantata quanto antica, in mezzo alla grande valle dove il Trionto suona e canta tra la selvaggia selva, la dolce Biancaneve passeggiava.
Con lei conversava un simpatico pastore incontrato lì per caso.
Raccontò alla principessa di un luogo cupo e leggendario appartenuto ai popoli Sibariti, Crotoniati e Romani.
Un posto dove si dicesse fermarsi il tempo, dove l’atmosfera eterna sembrava a dir poco tattile.
“Dove?” chiese la giovane.
“Custodite dall’Altare, preziosi della Sila, sono i più grandi tesori. Così dice la leggenda.” rispose il buon vecchio, indicando con la mano la grande mole del maestoso monte.
“Pare, mia cara – continuò l’uomo – che lì vi stiano creature incantate che non facciano altro che lavorare senza mai fermarsi e che canticchino, a suon di rudi attrezzi, una melodia che può conquistare chiunque la ascolti per più d’un battito d’ali.”
Biancaneve, vittima della sua vorace curiosità, pregò l’uomo di portarla in quei luoghi. Voleva vedere le creature.
“Non posso portarti alle miniere. Potremmo cadere vittima dell’incantesimo della melodia. Posso condurti però nel luogo in cui essi vivono.” rispose e, aguzzando la vista, non troppo lontano, vide il Gigante con i Tentacoli.
“Ecco! – disse – Quella è l’entrata della loro dimora.”
Arsa sempre più dalla curiosità e per nulla impaurita, Biancaneve si avvicinò a quei rami.
Sempre più vicino vedeva il delinearsi di una bizzarra struttura, ben nascosta dalle contorte radici dell’imponente albero.
Fece per attraversare quella barriera naturale ma si sentì bloccare: il suo mantello era rimasto incastrato tra alcuni rami. Lo tolse con dolcezza e trovò una sorpresa.
Non sapendo come e perché, da sotto il mantello, tra quelle radici era comparsa una mela, rossa come il sangue e dal profumo inebriante.
Troppo curiosa la prese in mano.
“Guarda cos’ho trovato..” disse voltandosi.
Tuttavia rimase sconcertata: il pastore era scomparso e lei all’improvviso si sentiva tanto, tanto affamata..
Si dice che, quando l’ultima folata di vento accarezza quelle radici, esattamente all’ultimo raggio di sole, si possa sentire ancora il profumo inebriante del frutto stregato.
Località: Longobucco; Modella: Pia Rocca; abito: Elisa Gigliotti; Accademia della Moda filiale di Cosenza
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
La Fata Turchina
Durante la dominazione bizantina giunsero nel Salento i monaci Basiliani, così detti da San Basilio il fondatore dell’ordine.
Nel 726 l’imperatore bizantino Leone III Isaurico, emanò un editto con il quale ordinava la distruzione delle immagini sacre e icone in tutte le province dell’Impero mettendo in fuga dall’Oriente migliaia di monaci che, per sfuggire alla persecuzione, si rifugiarono nelle estreme regioni meridionali dell’Italia.
Ad opera di coloro rifugiatisi nella nostra terra, ove trovarono il loro ameno centro di spiritualità, presumibilmente nella prima parte del VIII secolo, avvenne la costruzione del cenobio di Basilicò, le cui notizie certe si trovano all’interno dell’archivio parrocchiale di Bocchigliero.
Si racconta che sul finire di Luglio del XIV sec., ad una donna pia e timorata di Dio, suor Ortensia, apparve in sogno la Vergine Maria che le comandava di recarsi presso la chiesa di Basilicò a cercarvi la sua immagine. In preda a forte commozione, la mattina dopo Ortensia informò il confessore Don Domenico Marino che sorridendo l’ammonì a non prestar fede ai sogni che, anche se buoni, potrebbero nascondere certamente l’inganno.
Tuttavia, Ortensia ricevuta ancora una volta la visione della Vergine e la sua già conosciuta richiesta, fu costretta ad insistere. Ancora una volta, però, il confessore le si mostrò scettico. Ortensia sommessa si arrese ma, dopo un giorno passato a piangere, cadendo in un sonno profondo rivide Maria Vergine che l’ammonì:
“Sono comparsa per ben due volte, ma né tu né il tuo confessore avete creduto alla mia apparizione.
Recatevi a Basilicò, nella chiesa e, scavando, cercate nel lato destro dell’altare perché vi giace la mia immagine scolpita su pietra.
Con processione portatela in paese. Sarà mio pensiero scegliere dove desidero essere venerata”.
Stavolta Ortensia venne creduta. Anche Don Domenico aveva ricevuto la visita della Madonna.
Con grande commozione della gente tutta, la Sacra Effige fu trovata e portata in processione e posizionata sull’altare della chiesa oggi chiamata di S. Francesco.
Tuttavia con stupore immenso, il giorno dopo, dell’Effige non v’era più traccia. Per ben tre volte fu trovata e rimessa a posto, e per ben tre volte scomparve fino al giungere al mattino del 5 agosto, quando finalmente il popolo di Bocchigliero capì dove la Vergine Maria voleva stare.
Venne costruito allora il Santuario che tutt’oggi porta il suo nome: il Santuario della Madonna de Jesu.
Oggi questa vicenda è narrata ai bambini come la storia della fata che, vestita d’azzurro, di tanto in tanto scende dal suo altare per girovagare nei boschi alla ricerca di anime perdute e dubbiose, bisognose di un ritorno verso la spiritualità e la serenità di Dio.
Località: Bocchigliero; Modella: Naomi Rizzo; abito: Elena Vommaro; Accademia della Moda filiale di Cosenza
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
Alice nel Paese delle Meraviglie
Tra i meravigliosi scorci panoramici della Sila, quello più ricco di magia è senza ombra di dubbio l’immensa distesa dei pianori di Macchialonga.
Ogni anno in primavera, quando marzo libera il sole dalla lunga prigionia dell’inverno, queste grandi distese si accendono dei più variopinti colori.
Tuttavia ciò che conquista l’anima di chi vi posa gli occhi, non è tanto lo straordinario tappeto di fiori, quanto la sua origine.
Si racconta che la bella Alice, oramai cresciuta e tornata dal fantastico mondo cui appartiene, visitò i nostri territori, curiosa di trovare un raro fungo che, si diceva, nascesse una volta ogni quattro anni e che non vivesse più di un mese.
Accompagnata da un grottesco giocoliere, che pare avesse rubato qualcosa di molto importante al cappellaio matto, Alice non si risparmiò nemmeno uno dei tanti sentieri che conducevano all’incantevole luogo.
I due vagarono per diversi giorni, senza mai risparmiarsi, dilaniati dalla vorace curiosità di trovare il famoso fungo. Quando ormai stanchi ed affamati giunsero nei pressi del cristallino lago, i due poterono scorgere tra le ombre dei copiosi faggeti, innumerevoli colonie di funghi che come piccoli gnomi spuntati dal terreno, governavano incontrastati tutt’intorno.
Quello che cercavano non fu difficile da trovare: tra i tanti era quello che per grossezza e colore si distingueva con grande facilità. Attirati dal suo intenso profumo, i due famelici non resistettero alla tentazione, senza curarsi del grave scotto cui sarebbero incappati.
Resi folli dal potente potere allucinogeno del raro fungo, Alice e il giocoliere, furono presi da un’eccitante pazzia che spinse l’uomo a voler sfidare nudo il tacito lago che senza sforzo, riuscì ad inghiottirlo nel più impercettibile dei silenzi.
Alice invece, rimasta sulla riva e senza rendersi conto di quanto era accaduto al suo compagno, curiosando nel colorato vestito che era stato gettato a terra con tanta indifferenza, estrasse dalla tasca un piccolo porta gioie che, una volta aperto, magicamente fece comparire un cilindro.
Era quello l’oggetto rubato al cappellaio.
Eccitata per la scoperta, Alice indossò il cappello. Tuttavia solo in pochi sanno che i cappelli sono fedeli solo al loro proprietario e che se indossati da qualcun altro conquistano la mente del malcapitato offuscando i pensieri e liberando gli istinti più folli.
La povera Alice non sapeva tutto questo e, resa ancor più inarrestabile dall’ulteriore incantesimo, corse a perdifiato lungo i grandi pianori con capriole, salti e pazze giravolte che piano piano riducevano a brandelli il suo stravagante vestito.
Sfinita si accasciò a terra in tempo per sentire il suo cuore esplodere.
Dai mille e mille brandelli di vitalità, tripudio ed allegria sparsi per tutto l’altopiano, nacque quello straordinario manto colorato che ancora oggi non manca di mostrarsi nel periodo in cui la natura e gli animali, come impazziti, danzano e cantano a più non posso, ispirati senz’altro dallo spirito della bella ed esaltata Alice che di tanto in tanto ritorna.
Località: Macchialonga; Modella: Rugeria Gallizzi; abito: Sara Neglia; Accademia della Moda filiale di Cosenza
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;
Odette
Molti anni fa, prima della grande urbanizzazione del XX secolo, nel cuore della Sila grande, in mezzo a una roccaforte naturale che si presentava all’uomo come un habitat impermeabile, angusto e selvaggio, sorgeva un piccolo villaggio. Gli antenati latini chiamavano quella zona LÒRICA per indicare la corazza naturale che faceva di quel luogo un posto sicuro per proteggersi e nascondersi da eventuali pericoli. Tesoro del paesaggio era il lago, dove si dicesse nascere la luna durante tutti gli equinozi di primavera.
I pastori non avevano mai messo in dubbio questa leggenda e ben si guardavano dall’uscire in quella speciale notte in cui, voleva la leggenda, accadessero cose che l’umana comprensione non poteva capire. In una delle tante case che vi si trovavano, abitava un vecchio pastore ormai consumato dagli anni su cui vegliava una splendida ed incantevole nipote, arrivata dal vicino villaggio per prendersene amorevolmente cura.
Il suo nome non è mai arrivato ai giorni nostri. La storia racconta che la si poteva chiamare in qual si voglia maniera tanto era libero e selvaggio il suo spirito. Come tutte le fanciulle in età per comprendere il sentimento ed i giochi d’amore, non era dovuto passare molto tempo prima di incontrare il giovane che le rubasse il cuore. Era figlio di un ricco mercante di pelli che spesso si recava a Lorica, dove si riscuotevano sempre ottimi affari.
I due giovani, come sempre, approfittando del tempo loro concesso, sgattaiolavano di notte sulle rive dell’impercettibile e oscuro lago, a dichiararsi l’un l’altro quanto forte fosse l’emozione del rivedersi. Deciso più che mai a non volersi più separare da lei, il ragazzo nel bagliore delle stelle, inumidì la sua mano nella fredda acqua e ne estrasse un piccolo sasso bianco, come pegno e promessa d’amore per la ragazza che con occhi trasognati già pregustava la dolcezza di una vita piena d’amore e gioia.
“Al mio ritorno..”, fu la promessa che i due si regalarono davanti agli occhi dell’attento lago.
La giovane trascorse più d’una stagione ad aspettarlo, di giorno recandosi alle porte del villaggio in attesa di scorgere l’amato e di notte a pregare il lago di richiamarlo. Fu grande il suo stupore quando insieme al giovane vide accompagnarsi un’innocente fanciulla, ormai sua promessa sposa. Inutili furono le notti perse ad attenderlo al lago nel freddo dell’ormai arrivato inverno che nulla poteva contro la fermezza e l’ostinazione di un giovane cuore devastato dal dolore e straziato dalla speranza.
Resa ormai folle dall’amore, si dice che lei non tornò più a casa. Si nascose nella folta vegetazione comparendo di tanto in tanto, nelle notti più solitarie, sulle rive del lago, canterellando una melodia piena d’afflizione e tormento che accompagnata dalla delicata danza e dal volteggiare delle sue braccia, pare riuscisse a commuovere anche il più duro degli alberi tutt’intorno. Il giovane, ormai sposato, per mesi non era voluto tornare nel villaggio di Lorica, tuttavia, udendo voce della pazzia che a causa sua aveva colpito la sua amata, all’avvicinarsi della primavera, ritornò al lago, vagando per un’intera notte tra i boschi, cercando di udirne la voce. Scoraggiato, all’alba raggiunse il lago, deciso a lasciare una vita che ormai non sentiva più magica e speciale senza il suo vero amore. Si gettò in acqua a forti bracciate per raggiungere il punto più lontano del lago consapevole di non poter più tornare indietro e proprio quando iniziò a sentire le sue forze lasciarlo, voltandosi perché chiamato da una voce, egli riconobbe l’amata che a gran voce invocava il suo nome.
Spinta dall’amore, lei si gettò in acqua ma il lago aveva ormai inghiottito il ragazzo e a nulla poterono le grida della giovane. Il lago, per quanto cattivo che possa sembrare, aveva agito mosso dalla pietà per la condizione della ragazza: prendendosi il ragazzo aveva risparmiato alla giovane il dolore di saperlo accanto ad un’altra donna e lontano da lei. Compì anche un’altra magia concedendo alla giovane un solo giorno all’anno in cui potersi avvicinare nel punto in cui finì inghiottito l’amato.
Il lago però fu bene attento a non concederle di avvicinarsi come essere umano; troppo bene sapeva che lei avrebbe cercato di ritrovare il corpo. La trasformò perciò in una maestosa creatura, dalla sinuosità melodiosa e danzante, capace di fedeltà eterna. La trasformò in un cigno.
Da allora non c’è stata persona innamorata che capitando in quei luoghi, non abbia provato a scorgere all’alba dell’equinozio di primavera, quella giovane fanciulla in procinto di mutarsi nel simbolo dell’amore eterno.
Località: Lago Arvo; Modella: Andrea Celeste Liuzzi; abito: Paolo Mauro; Accademia della Moda filiale di Cosenza
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vincenzo Leuzzi;
Megara
Moltissimi secoli fa, in una piccola città chiamata Akerentia o Acheronthia, devota al sacro fiume Acheronte, il re Creonte signore di Tebe, vi aveva creato una piccola ma prospera colonia.
Numerosi eroi vi giungevano per rilassarsi dalle grandi imprese e trovare serenità nel verde splendido dei territori lì intorno.
Pare che persino il grande Ercole, accompagnato dal fido Pegaso, giunse in quel paese per trovar ristoro dopo la faticosa battaglia contro Cerbero.
Insieme con lui era sua moglie Megara, il quale spirito forte e libero non esitò ad allontanarsi dal giogo di suo padre il re e dagli obblighi di principessa.
Con Ercole, i due felici e innamorati trascorrevano molto tempo nelle campagne e lei s’innamorò tanto di un piccolo scorcio di collina appena fuori dalle mura che si dice che Ercole in persona vi costruì un piccolo tempietto d’amore in cui giacere con la sua sposa.
Nella notte del loro anniversario i due come sempre si erano dati appuntamento nell’alcova.
Megara per compiacere il suo sposo aveva rindossato l’abito bianco che una ninfa le aveva regalato per le nozze e gioiosa e felice già correva a più non posso nei bui campi scalza ed impaziente di vedere l’amato.
Tuttavia fu un messo ad attenderla. Portava con sé un messaggio: Ercole la pregava di attendere. Il messo si chiamava Lico, uomo crudele e spietato e innamorato della giovane, che con abile inganno aveva distratto Ercole per avvicinarsi senza pericolo alla bellissima donna.
Megara combatté fino allo stremo delle forze per sfuggire al terribile uomo che reso folle dal desiderio la strinse così forte da soffocarla, lasciando che la povera donna giacesse a terra ormai inerme e senza più vita nei magnifici occhi verdi.
Scoperto l’inganno Ercole arrivò troppo tardi e si narra che quando vide il corpo ormai pallido e senza vita dell’amata, reso pazzo e furioso dal dolore distrusse l’alcova.
Per cinque giorni e cinque notti continuò l’opera di distruzione in tutta la città obbligando gli abitanti a disperdersi nei vicini paesi di Caccuri, Casino e San Giovanni in Fiore, facendo di quella fiorente cittadina, ruderi e detriti di argille e pietre calcaree che mai più rividero lo splendore di un tempo.
Si racconta che ancora oggi egli vada scrutando per l’immenso regno dell’Ade alla ricerca della sposa, inconsapevole che l’anima dell’amata, per volere del fiume Acheronte impietosito dalla violenta morte, vaghi invece per i resti di Akerentia e che ogni notte torni sulla collina dell’ormai distrutto tempio in attesa dello sposo per consumare la loro notte d’amore rubata.
Località: Acerenthia; Modella: Elisabetta Demme; Abito: Sez.Moda IIS ITGC ISA – Liceo Artistico San Giovanni in Fiore
Foto: Biagio Oliverio; Fotoritocco: Gabriele Morelli; Acconciatura e trucco: Vicky Guzzo;